UNA QUESTIONE DI RANGO

Da che ne abbiamo memoria, le guerre squarciano le esistenze di milioni di persone nel mondo. Sono una costante della nostra storia, che alimenta un circolo di sofferenza e morte al quale sembra che nessuno riesca a porre rimedio. Spesso ci domandiamo di chi sia la colpa: la politica? Gli interessi delle multinazionali? Il petrolio? A chi dobbiamo dare la responsabilità dei conflitti armati, che non siamo in grado di dirimere una volta per tutte?

Nel farci queste domande, non facciamo altro che porre la guerra lontano da noi, dal nostro quotidiano, e indirettamente proclamiamo la nostra impotenza di fronte ad essa. Ma la guerra non è solo quella che si combatte nelle trincee dei fronti. Ce n’è un altro tipo, più subdolo e silenzioso, che alimenta le nostre vite di odio, infelicità e angoscia. Si manifesta nella tensione che caratterizza i nostri rapporti quotidiani con gli altri, siano essi estranei o meno, ed è direttamente collegata alle guerre che si combattono con i missili, con i carri armati e le bombe. Se ci fermassimo un attimo a guardarci e osservarci, noteremmo che siamo tutti indistintamente percorsi da senti- menti di ostilità, come rabbia, nervosismo e impazienza, che sono diventati il tratto distintivo delle relazioni in famiglia, negli ambienti di lavoro, persino con noi stessi. Allora viene da domandarsi: come possiamo pretendere di porre fine alle guerre nel mondo se non siamo consapevoli di quelle a noi più prossime, che combattiamo giornalmente contro le persone a noi vicine?

I macro e microconflitti che caratterizzano le nostre società sono profondamente interconnessi, e pensare di risolverne uno senza prendere in considerazione gli altri, difficilmente porta a soluzioni a lungo termine. L’approccio del worldwork e della deep democracy di Arnold Mindell, docente e terapeuta americano, fondatore della process oriented psychology, si basa proprio sull’idea che i problemi non si possono affrontare in modo lineare, uno alla volta, poiché vanno analizzati e affrontati tutti contemporaneamen- te, nella loro globalità.

È importante comprendere che guerra e abuso sono due termini strettamente connessi, che si accordano come le due facce di una stessa medaglia. Quante volte ci siamo senti- ti impotenti in un ufficio pubblico, o abbiamo dovuto tacere le nostre idee per essere accettati da un gruppo. Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sperimentato cosa si pro- va nell’essere scherniti dai compagni di classe o dagli insegnanti a scuola.

Secondo Mindell, l’abuso, a tutti i livelli, dal rapporto di coppia alla dimensione più sociale, nasce spesso laddove, in presenza di una disparità di rango, questa non viene riconosciuta. Ma cos’è il rango?

Mindell definisce il rango come quel potere, conscio o inconscio, che determina molti dei nostri comportamenti comunicativi, in base alla consapevolezza che ne abbiamo.

Tutti possediamo qualche tipo di rango. Anzi, possiamo averne diversi contemporaneamente, e più ne abbiamo, meno siamo consapevoli degli effetti negativi che questi esercitano sugli altri e, allo stesso tempo, più è difficile riconoscere il valore di chi ha un rango più basso. Per fare un esempio, pensiamo a quello che accade nelle strutture gerarchiche, in particolare nel mondo degli affari. Chi sta in alto, come i dirigenti, difficilmente comprende le ragioni di chi occupa i gradini più bassi della piramide, dimenticando il proprio potere e accusando i propri sotto- posti di tutti i problemi societari.

Esistono diversi tipi di rango, in parte ereditari, in parte costruiti sulla base delle proprie esperienze. Ad esempio, il mio rango sociale si costruisce su elementi di origine fisica e su elementi ereditati dalla famiglia (sono una donna, bianca, di origine cattolica, occidentale, eterosessuale, fisicamente sana) e questo mi conferisce un certo status all’in- terno della società in cui vivo. È più difficile per me trovare un posto di lavoro rispetto a un uomo, ma è più facile rispetto a una donna proveniente da un paese extraeuropeo.

Il rango subisce delle trasformazioni, non è qualcosa di dato e fisso, può accrescersi o perdere di importanza in base alle scelte di vita che facciamo: l’essere laureata eleva la mia posizione, così come il vivere in un ecovillaggio (specialmente tra i lettori di questa rivista! Il rango è anche contestuale…), ma il fatto di non essere sposata e non avere figli fa sì che il mio rango sia più basso rispetto a una donna della mia età già madre. Dunque, il rango si modifica ed evolve nel tempo perché dipende da molti fattori: in un dato momento sono una giornalista e ho il potere di mandare un messaggio a lettori più o meno consapevoli, in un altro vengo manipolata dalla pubblicità occulta di Facebook; oggi sono una giovane imprenditrice rampante all’apice della carriera con dieci dipendenti, domani mi nasce un figlio e mi trovo ad essere economicamente dipendente dal mio compagno.

Oltre al rango sociale, esiste poi quello psicologico, che ha origine dalla mia storia, dall’educazione ricevuta, dal fatto che sono «sopravvissuta» a certi abusi, agli incontri, alla sofferenza: sono le caratteristiche di reazione che si sviluppano dalle ferite primarie. Infine, c’è un potere che nasce dalla fede: è il rango spirituale, qualcosa di profondo, un’aura energetica invisibile e potentissima. Questo tipo di rango è inalienabile, poiché indipendente dal contesto e dagli altri tipi di rango.

«Oggi io, domani te»: questo è l’assunto fondamentale della deep democracy. Riconoscere il proprio rango e quello altrui non significa rimanere prigionieri della propria storia, ma comprendere i meccanismi psicologici che ci condizionano e, soprattutto, accogliere i diversi ruoli perché tutti noi, prima o poi, sperimentiamo l’esser vittime e l’esser carnefici, l’essere lupi e agnelli, vegetariani e carnivori, in cima e in fondo alla scala. In questa o nella prossima vita…

Ognuno ha un rango differente, perché diverse sono le nostre storie: la difficoltà (e la potenzialità di questo strumento) sta nel riconoscere il proprio e quello altrui, per costruire un mondo migliore. È soltanto sperimentando in prima persona i diversi ruoli che si può accedere a un grado di consapevolezza più alto, che permette di non giudicare, di andare oltre, di poter «vedere» sia la vittima che l’oppressore.

Da quando ho conosciuto la teoria di Mindell mi approccio con una consapevolezza diversa alle relazioni: siamo talmente abituati a utilizzare il nostro potere, opprimendo chi sta sotto e servendo chi sta sopra di noi, che non ci accorgiamo neanche più degli abusi che ne scaturiscono.

Il primo passo è quello di iniziare a riconoscere il proprio rango e potere, comprendere come i nostri scontri quotidiani nascano da una differenza di rango, ascoltare le voci inespresse del nostro inconscio, la rabbia e la paura. Ogni volta che ci troviamo in una situazione di conflitto, affrontiamolo, proviamo a pensare alle nostre reciproche posizioni, a cosa ci muove la persona che ci sta di fronte: «stiamo nel fuoco», ascoltiamone l’energia, esploriamone l’origine, riconosciamo i ruoli.

Per vivere insieme e costruire un sistema alternativo a quello basato sull’abuso e sulla violenza, è importante riconoscere da dove queste nascono, e riuscire a comprendere la rabbia che ne deriva. La consapevolezza del rango, da parte di entrambi gli interlocutori, può aiutare a ridurre notevolmente i microconflitti a livello dei rapporti di coppia, nei gruppi di lavoro, nella famiglia e, non ultimo, anche a livello globale.

Allora, il mio obiettivo è di trovare una comunicazione che non sia tanto «politically correct», ma che sia l’espressione della mia verità: è più costruttivo urlare il proprio dolore, che non nasconderlo sotto mentite spoglie di gentilezza, è più sano giudicare ed esprimere la propria intolleranza piuttosto che accettare passivamente quello che accade intorno a noi.

In questo modo, esprimendoci liberamente, senza paura della reazione dell’altro, capiremo che qualunque scontro si può trasformare in un incontro. Andando oltre le parole e le emozioni che queste possono provocare, arriveremo a un punto in cui sentiremo che non c’è alcuna differenza tra «me» e «te», e potremo comunicare da quella parte profonda di noi, che alcuni chiamano cuore, altri anima.

Non bisogna dimenticare, poi, che collegati al concetto di abuso sono quelli di paura e rabbia. Si tratta di energie che, se compresse, rischiano di esplodere quando meno ce lo aspettiamo. In questo caso, l’obiettivo è imparare ad accettarle come sentimenti vitali che tutti sperimentiamo quotidianamente, e a utilizzarle come strumenti per la crescita e l’evoluzione. Possiamo scegliere di bloccarci su equilibrati principi, conformarci a comode regole di buona convivenza, arroccarci solitariamente sulla cima della montagna dell’ego; oppure possiamo scendere a valle, incontrare l’altro, guardarlo come se ci stessimo specchiando.

Attraverso la relazione conosciamo noi stessi, entriamo in contatto con le nostre ferite, abbiamo la possibilità di crescere, di guarire, di evolverci. Alla base della teoria di Min- dell c’è il concetto di «coscienza collettiva». Le sue riflessioni si concentrano su un obiettivo finale: l’evoluzione della specie umana. Per cui, nella sua interpretazione, ogni volta che affrontiamo un conflitto nella vita di tutti i giorni, guariamo una relazione. Guarendo le nostre relazioni, possiamo liberare il mondo intero dalla guerra. Per usare le parole di Mindell:

«Quando i problemi bussano alla nostra porta, c’è la possibilità di un nuovo tipo di comunità.

La nuova comunità non si basa soltanto dalla conoscenza reciproca, ma sulla decisione di entrare nell’ignoto, nei problemi: in quel fuoco, che è il prezzo della libertà».

Articolo scritto da me, uscito su AAM Terranuova, maggio 2013

worldworkprocesso di gruppo durante un incontro di WorldWork