Preparandomi per il WORLDWORK

Oggi i problemi politici mondiali non sono solo affare per la parte ricca e educata della società, così come lo sviluppo economico non è solo questione di borsa.

Nel nostro magico piccolo pianeta, dove l’atmosfera non può più esser controllata da scienziati, politici, preti o stregoni, la situazione mondiale è affare di tutt*.

Non possiamo permetterci di lasciarla ad altr*.

Il tempo è maturo per sviluppare un Worldwork che connetta esperienze transpersonali  con la realtà mondana, il servizio spirituale e l’attività politica, l’altruismo orientale e il razionalismo occidentale, il lavoro con i sogni e quello con il corpo.

Arnold Mindell – ‘The leader as a martial artist’

Il tempo è quello giusto, è adesso.

Non possiamo più sommergere i disaccordi nel politically correct, non possiamo aspettarci che qualcun altr* scelga per noi: è tempo di sedere nel fuoco del conflitto, guardare l’altr* negli occhi, vederne tutta la diversità, sentire come attraverso l’incontro possiamo conoscere noi stess* più profondamente.

E’ il momento di portare la pace nelle nostre case, nei nostri uffici, nelle nostre relazioni, qui e ora, e così portare pace in Ucraina, in Palestina, in Egitto. Non possiamo permetterci di rimandare, aspettare, delegare.

Le situazioni turbolente che si presentano durante i periodi di rapido cambiamento, e persino le rivoluzioni, sono piene di potenziale significato e ordine.

Direi che la mia vita non è mai stata così piena di emozioni contrastanti come negli ultimi mesi, così caotica, depressa, adrenalinica, autodistruttiva, entusiasmante.

Direi che sono pronta per il mio primo Worldwork.

27 Aprile | 2 Maggio 2014 | Warsaw

Il Worldwork è stato sviluppato da Arnold Mindell, fondatore della Process Oriented Psychology e dai suoi collegh*. Il Worldwork è un seminario esperienziale di 6 giorni che ha luogo circa ogni due anni, sui conflitti e la costruzione di comunità: tre-quattrocento persone provenienti da oltre trenta paesi si riuniscono in un forum per concentrarsi su argomenti legati alla politica, all’ambiente, al sociale, utilizzando gli strumenti della Deep Democracy.

UNA QUESTIONE DI RANGO

Da che ne abbiamo memoria, le guerre squarciano le esistenze di milioni di persone nel mondo. Sono una costante della nostra storia, che alimenta un circolo di sofferenza e morte al quale sembra che nessuno riesca a porre rimedio. Spesso ci domandiamo di chi sia la colpa: la politica? Gli interessi delle multinazionali? Il petrolio? A chi dobbiamo dare la responsabilità dei conflitti armati, che non siamo in grado di dirimere una volta per tutte?

Nel farci queste domande, non facciamo altro che porre la guerra lontano da noi, dal nostro quotidiano, e indirettamente proclamiamo la nostra impotenza di fronte ad essa. Ma la guerra non è solo quella che si combatte nelle trincee dei fronti. Ce n’è un altro tipo, più subdolo e silenzioso, che alimenta le nostre vite di odio, infelicità e angoscia. Si manifesta nella tensione che caratterizza i nostri rapporti quotidiani con gli altri, siano essi estranei o meno, ed è direttamente collegata alle guerre che si combattono con i missili, con i carri armati e le bombe. Se ci fermassimo un attimo a guardarci e osservarci, noteremmo che siamo tutti indistintamente percorsi da senti- menti di ostilità, come rabbia, nervosismo e impazienza, che sono diventati il tratto distintivo delle relazioni in famiglia, negli ambienti di lavoro, persino con noi stessi. Allora viene da domandarsi: come possiamo pretendere di porre fine alle guerre nel mondo se non siamo consapevoli di quelle a noi più prossime, che combattiamo giornalmente contro le persone a noi vicine?

I macro e microconflitti che caratterizzano le nostre società sono profondamente interconnessi, e pensare di risolverne uno senza prendere in considerazione gli altri, difficilmente porta a soluzioni a lungo termine. L’approccio del worldwork e della deep democracy di Arnold Mindell, docente e terapeuta americano, fondatore della process oriented psychology, si basa proprio sull’idea che i problemi non si possono affrontare in modo lineare, uno alla volta, poiché vanno analizzati e affrontati tutti contemporaneamen- te, nella loro globalità.

È importante comprendere che guerra e abuso sono due termini strettamente connessi, che si accordano come le due facce di una stessa medaglia. Quante volte ci siamo senti- ti impotenti in un ufficio pubblico, o abbiamo dovuto tacere le nostre idee per essere accettati da un gruppo. Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sperimentato cosa si pro- va nell’essere scherniti dai compagni di classe o dagli insegnanti a scuola.

Secondo Mindell, l’abuso, a tutti i livelli, dal rapporto di coppia alla dimensione più sociale, nasce spesso laddove, in presenza di una disparità di rango, questa non viene riconosciuta. Ma cos’è il rango?

Mindell definisce il rango come quel potere, conscio o inconscio, che determina molti dei nostri comportamenti comunicativi, in base alla consapevolezza che ne abbiamo.

Tutti possediamo qualche tipo di rango. Anzi, possiamo averne diversi contemporaneamente, e più ne abbiamo, meno siamo consapevoli degli effetti negativi che questi esercitano sugli altri e, allo stesso tempo, più è difficile riconoscere il valore di chi ha un rango più basso. Per fare un esempio, pensiamo a quello che accade nelle strutture gerarchiche, in particolare nel mondo degli affari. Chi sta in alto, come i dirigenti, difficilmente comprende le ragioni di chi occupa i gradini più bassi della piramide, dimenticando il proprio potere e accusando i propri sotto- posti di tutti i problemi societari.

Esistono diversi tipi di rango, in parte ereditari, in parte costruiti sulla base delle proprie esperienze. Ad esempio, il mio rango sociale si costruisce su elementi di origine fisica e su elementi ereditati dalla famiglia (sono una donna, bianca, di origine cattolica, occidentale, eterosessuale, fisicamente sana) e questo mi conferisce un certo status all’in- terno della società in cui vivo. È più difficile per me trovare un posto di lavoro rispetto a un uomo, ma è più facile rispetto a una donna proveniente da un paese extraeuropeo.

Il rango subisce delle trasformazioni, non è qualcosa di dato e fisso, può accrescersi o perdere di importanza in base alle scelte di vita che facciamo: l’essere laureata eleva la mia posizione, così come il vivere in un ecovillaggio (specialmente tra i lettori di questa rivista! Il rango è anche contestuale…), ma il fatto di non essere sposata e non avere figli fa sì che il mio rango sia più basso rispetto a una donna della mia età già madre. Dunque, il rango si modifica ed evolve nel tempo perché dipende da molti fattori: in un dato momento sono una giornalista e ho il potere di mandare un messaggio a lettori più o meno consapevoli, in un altro vengo manipolata dalla pubblicità occulta di Facebook; oggi sono una giovane imprenditrice rampante all’apice della carriera con dieci dipendenti, domani mi nasce un figlio e mi trovo ad essere economicamente dipendente dal mio compagno.

Oltre al rango sociale, esiste poi quello psicologico, che ha origine dalla mia storia, dall’educazione ricevuta, dal fatto che sono «sopravvissuta» a certi abusi, agli incontri, alla sofferenza: sono le caratteristiche di reazione che si sviluppano dalle ferite primarie. Infine, c’è un potere che nasce dalla fede: è il rango spirituale, qualcosa di profondo, un’aura energetica invisibile e potentissima. Questo tipo di rango è inalienabile, poiché indipendente dal contesto e dagli altri tipi di rango.

«Oggi io, domani te»: questo è l’assunto fondamentale della deep democracy. Riconoscere il proprio rango e quello altrui non significa rimanere prigionieri della propria storia, ma comprendere i meccanismi psicologici che ci condizionano e, soprattutto, accogliere i diversi ruoli perché tutti noi, prima o poi, sperimentiamo l’esser vittime e l’esser carnefici, l’essere lupi e agnelli, vegetariani e carnivori, in cima e in fondo alla scala. In questa o nella prossima vita…

Ognuno ha un rango differente, perché diverse sono le nostre storie: la difficoltà (e la potenzialità di questo strumento) sta nel riconoscere il proprio e quello altrui, per costruire un mondo migliore. È soltanto sperimentando in prima persona i diversi ruoli che si può accedere a un grado di consapevolezza più alto, che permette di non giudicare, di andare oltre, di poter «vedere» sia la vittima che l’oppressore.

Da quando ho conosciuto la teoria di Mindell mi approccio con una consapevolezza diversa alle relazioni: siamo talmente abituati a utilizzare il nostro potere, opprimendo chi sta sotto e servendo chi sta sopra di noi, che non ci accorgiamo neanche più degli abusi che ne scaturiscono.

Il primo passo è quello di iniziare a riconoscere il proprio rango e potere, comprendere come i nostri scontri quotidiani nascano da una differenza di rango, ascoltare le voci inespresse del nostro inconscio, la rabbia e la paura. Ogni volta che ci troviamo in una situazione di conflitto, affrontiamolo, proviamo a pensare alle nostre reciproche posizioni, a cosa ci muove la persona che ci sta di fronte: «stiamo nel fuoco», ascoltiamone l’energia, esploriamone l’origine, riconosciamo i ruoli.

Per vivere insieme e costruire un sistema alternativo a quello basato sull’abuso e sulla violenza, è importante riconoscere da dove queste nascono, e riuscire a comprendere la rabbia che ne deriva. La consapevolezza del rango, da parte di entrambi gli interlocutori, può aiutare a ridurre notevolmente i microconflitti a livello dei rapporti di coppia, nei gruppi di lavoro, nella famiglia e, non ultimo, anche a livello globale.

Allora, il mio obiettivo è di trovare una comunicazione che non sia tanto «politically correct», ma che sia l’espressione della mia verità: è più costruttivo urlare il proprio dolore, che non nasconderlo sotto mentite spoglie di gentilezza, è più sano giudicare ed esprimere la propria intolleranza piuttosto che accettare passivamente quello che accade intorno a noi.

In questo modo, esprimendoci liberamente, senza paura della reazione dell’altro, capiremo che qualunque scontro si può trasformare in un incontro. Andando oltre le parole e le emozioni che queste possono provocare, arriveremo a un punto in cui sentiremo che non c’è alcuna differenza tra «me» e «te», e potremo comunicare da quella parte profonda di noi, che alcuni chiamano cuore, altri anima.

Non bisogna dimenticare, poi, che collegati al concetto di abuso sono quelli di paura e rabbia. Si tratta di energie che, se compresse, rischiano di esplodere quando meno ce lo aspettiamo. In questo caso, l’obiettivo è imparare ad accettarle come sentimenti vitali che tutti sperimentiamo quotidianamente, e a utilizzarle come strumenti per la crescita e l’evoluzione. Possiamo scegliere di bloccarci su equilibrati principi, conformarci a comode regole di buona convivenza, arroccarci solitariamente sulla cima della montagna dell’ego; oppure possiamo scendere a valle, incontrare l’altro, guardarlo come se ci stessimo specchiando.

Attraverso la relazione conosciamo noi stessi, entriamo in contatto con le nostre ferite, abbiamo la possibilità di crescere, di guarire, di evolverci. Alla base della teoria di Min- dell c’è il concetto di «coscienza collettiva». Le sue riflessioni si concentrano su un obiettivo finale: l’evoluzione della specie umana. Per cui, nella sua interpretazione, ogni volta che affrontiamo un conflitto nella vita di tutti i giorni, guariamo una relazione. Guarendo le nostre relazioni, possiamo liberare il mondo intero dalla guerra. Per usare le parole di Mindell:

«Quando i problemi bussano alla nostra porta, c’è la possibilità di un nuovo tipo di comunità.

La nuova comunità non si basa soltanto dalla conoscenza reciproca, ma sulla decisione di entrare nell’ignoto, nei problemi: in quel fuoco, che è il prezzo della libertà».

Articolo scritto da me, uscito su AAM Terranuova, maggio 2013

worldworkprocesso di gruppo durante un incontro di WorldWork

ARNOLD MINDELL, UN ELDER

‘la leader cerca di creare una maggioranza; l’anzian* è dalla parte di tutt*.

il leader vede un problema e cerca di risolverlo; l’anzian* vede in chi ha creato il problema un* possibile maestr*.

la leader cerca di essere la migliore in ciò che fa; l’anzian* cerca di far diventare anzian* anche gli/le altr*.

il leader sa; l’anzian* impara.’

Arnold Mindell, ‘Essere nel fuoco’

‘WOOF!’

questa è una delle parole più usate da Arnold Mindell. un modo divertente per attirare l’attenzione? un verso universalmente riconoscibile? un omaggio alla Natura animale dell’essere umano?

lui risponde così a molte delle domande che gli vengono poste, ma non significa sì, neanche no. è piuttosto qualcosa del genere ‘ci sono, sono qui, ti ascolto con tutt* me stess*, e in quello che dici c’è una grande verità’.

è per me un grande privilegio e onore aver conosciuto Arny a Portland. rimarrà impressa nella mia memoria la giocosità con la quale affronta ogni argomento, la leggerezza con cui passa, saltellando nel bel mezzo di un processo di gruppo, da un ruolo all’altro, quel sorriso di chi ha vissuto sulla sua pelle l’esser vittima e oppressore, e sa che sono due facce della stessa medaglia, e che ogni stato è temporaneo.

ho visto in lui un elder, un anziano, che ascolta ogni voce, perché sa che ogni voce è necessaria.

che abbraccia il suo rango con pienezza e umiltà.

che sa sedersi nel fuoco del conflitto, ballare con il Tao, e scherzarci come potrebbero fare amici di vecchia data che si incontrano al bar.

che onora chi non è presente e ringrazia chi lo è.

che crede nel valore della comunità come portatrice di pace.

che espande ogni istante un po’ di più la sua consapevolezza, per abbracciare ciò che è scomodo, allargando i limiti della propria ‘comfort zone’, per accogliere l’altr*, la diversità, e accoglierl* come parte dell’Universo, di cui tutt* facciamo parte, e scoprire quindi che l’altr* è parte di sé.

e mentre scrivo questo, penso che Arny è parte di me, e che parte di quella eldership è già nel mio campo :-) grazie.

arny-woof Arnold Mindell ed il regalo ricevuto durante l’intensivo a Portland: ‘what part of WOOF don’t you understand?’ ‘che parte di WOOF non capisci?’.

Open Forum a Ceglie messapica

cosa ci fanno un prete, un assessore, una studentessa di liceo, un attore e un’altra quarantina di persone sul palco di un teatro, seduti in cerchio?

potrebbe essere l’inizio di una barzelletta, o l’inizio di una ri-evoluzione. per me è stata di sicuro la seconda, anche se la componente ‘risata’ è stata fondamentale nell’Open Forum che si è svolto a Ceglie Messapica un paio di settimane fa,  a conclusione di un training sulla Deep Democracy.

il tema che avevamo scelto con il gruppo di ComuniTazione era la partecipazione a Ceglie. esistono forme di partecipazione reale tra cittadini, istituzioni e associazioni? come funzionano? come potrebbero essere più efficaci? strumenti, metodi, idee per disegnare insieme oggi la realtà di domani.

ero emozionata. uno dei primi Open Forum in Italia! ero curiosa di vedere come avrebbero reagito i rappresentanti delle tante associazioni coinvolte, quali fantasmi sarebbero emersi. Robert ed io vestiti entramb* di nero, da veri facilitatori-ghost-busters! (non era voluto, ma niente è a caso…)

il politically correct ha connotato la prima parte dell’evento: ogni voce aveva la possibilità di esprimersi, tutt* ci tenevano a presentarsi, a mostrare come il qualcosa che erano lì a rappresentare faccia il possibile per il cambiamento, per il miglioramento del paese della Val d’Itria. Sforzi e limiti venivano espressi, senza sbilanciarsi troppo…

il ruolo dei sentimenti nell’Open Forum è per me ciò che lo differenzia da altri strumenti di esplorazione di un tema: l’atmosfera del campo creata dal gruppo è cambiata profondamente nel momento in cui un’artista presente ha comunicato il suo dolore nel non riuscire ad entrare in contatto con la comunità locale, nonostante le numerose iniziative. quel sentimento di frustrazione per non essere ascoltati, quel non riuscire a comunicare, in qualche modo accumunava tutt* sul palco, mogli e mariti, amministrazione e cittadin*, adulti e adolescenti.

nel momento in cui quel sentimento è stato espresso, si è aperto come un vaso di Pandora, il teatro è stato sommerso da un fluido che collegava tutt*: una lingua comune da quel momento poteva essere usata, ognun* poteva sentirsi liber* di esprimersi, sarebbe sta* ascoltat*.

quel terreno collettivo, quell’humus fertile, ha permesso di passare ad un gioco di ruoli. individuati i ruoli che polarizzavano la situazione, nello scopo di far emergere una consapevolezza comune, tutt* i/le partecipant* potevano entrare nel campo, esprimere il loro sentire da uno dei punti di vista, passare da un ruolo all’altro, far emergere la necessità di altri ruoli… quindi chi ha voluto, anche per pochi minuti, ha potuto vestire i panni dell’assessore, e l’assessore, libero dal suo usuale ruolo, ha potuto esprimere il cittadino-che-non-ha-voglia-di-partecipare-ad-un-bel-niente che era in lui.

e credo che per tutt* sia stato un momento catartico quando I., nel ruolo della pubblica amministrazione, ha chiesto ad un cittadino lamentoso: ‘ma tu che vuoi??

il silenzio seguito a quella domanda ha racchiuso per me il senso della partecipazione:

il non delegare ad astratti enti competenti, ma prendersi la responsabilità delle proprie idee e azioni,

il saper entrare in contatto con sé quanto con l’ambiente, per poi esprimere sogni e bisogni

il diritto alla partecipazione è di ognun*, come lo è stare a guardare, non far niente, o aver bisogno di tempo per contattare i propri bisogni.

quest’incontro è stato per me come una danza, e i diversi dialetti presenti, la musica: avvicinarsi e allontanarsi, cercarsi, confrontarsi, sfidarsi e passare con disinvoltura da un ruolo all’altro.

come costruire la pace a ritmo di tarantella…

grazie

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Pazienza

sono rari i fulmini a ciel sereno.
la guerra ci mette molto tempo a crescere, innescarsi, e poi esplodere. e in un attimo, poi, può distruggere tutto.

allora penso che per evitare la guerra ci vuole pazienza.
pazienza nell’ascoltare sé e nel vedere l’altr*, nel sentire che siamo entramb* polvere di stelle.
pazienza nel far emergere i fantasmi, le paure, le emozioni, i ricordi.
pazienza per quella voce che da troppo tempo non parla, e si è dimenticata come si fa.
pazienza nell’affrontare i silenzi, le urla, le assenze.
pazienza, perché ognun* si ricordi il motivo per cui è qui.
pazienza per costruire comunità che non evitano i conflitti, e costruiscono la pace.

pazienza